giovedì 8 giugno 2023

NINA Capitolo 2 di Eleonora Satta


1992 


La schiena, curva e dolorante non lo fa stare in piedi con sicurezza. Il respiro è profondo, ma affaticato. Un grido di aiuto rimane serrato fra le labbra. Barcolla, strascica i piedi. Struscia le pantofole, fa le facce come se avesse addentato un limone, stringe la bocca e scuote la testa, il rumore lo fa rabbrividire. Perde una ciabatta, il piede è bianco, pelle secca, unghie lunghe. Indossa una tuta da ginnastica impataccata che odora di stantio e unto. Le mani appoggiate al muro del corridoio sostengono il peso del corpo. Ha un pensiero fisso: Cosa cavolo sto cercando?
In sottofondo la voce impostata di un uomo, parla del Magistrato Di Pietro, dell’Albergo Trivulzio, di Chiesa. Lampi dipingono la parete davanti a lui.
Chi è che parla? Che posto è questo? Chi mi ha portato qui?
Lo sguardo vaga, lo spazio gli ruota intorno.
Le tapparelle sono abbassate, luce non ne filtra.
Le lampade di casa sono tutte accese a parte un paio di lampadine fulminate.
Dove sono? C’è nessuno?
Giramento di testa, nausea e il rumore della valvola cardiaca che riempie lo spazio: tic tac tic tac rimbomba, segna un tempo finito. Questo gli ricorda qualcosa, ma non riesce a definire cosa.
Si trascina in un’altra stanza.
Un pulviscolo si alza ad ogni passo, lo si vede nel fascio di luce dell’abat-jour.
Inciampa. Per terra ci sono: calze, mutande, libri, giornali.
Ci cammina sopra fino al letto, dove si abbandona.
L’odore tutto intorno è quello di vecchiaia.
La coperta è sepolta da altri indumenti, scatole di medicine, ricette. Non si copre neanche. Spegne la luce. Schiaccia con le mani il petto, chiude gli occhi e si addormenta.
Un rumore lo sveglia, spalanca le palpebre. Tutto buio intorno.
Che è stato?
Biascica con la bocca, gli occhi sono cisposi. Ancora un capogiro. Arranca col braccio in cerca dell’interruttore, la mano si muove come sulla tastiera di un invisibile piano: sullo scendiletto un cumulo di libri sparso sul pavimento.
Si alza.
Lo stomaco gorgoglia, ha fame. Prima o poi la trovo. Di fronte alla porta della camera c’è lo studio. Va giù per il corridoio, bagno a destra. In faccia al bagno c’è la sala da pranzo, poi ancora sulla destra, in fondo, se dio vuole, dovrebbe esserci la cucina. La riconosce dal colore: è tutta verde, dal pavimento ai mobili. Non ci si può sbagliare.
Apre un paio di sportelli a caso prima di capire che il frigorifero è quello grande, in fondo, vicino alla portafinestra. Fa un po’ fatica ad aprirlo, lo sportello è pesante. Dentro poche cose maleodoranti: un limone, del vino stappato, un cartoccio che sembra contenere qualcosa di ammuffito, forse gorgonzola, dei barattoli aperti. Cosa stavo cercando? Voglio fare colazione? Mi serve il latte. Dov’è il latte?
Entra dentro con la mano, rovescia i barattoli, ceci ammuffiti sgocciolano ovunque. Inizia a muovere la porta del frigo, avanti e indietro, come un mantice. Urla. Impreca. Alza gli occhi al cielo.
Chi mi ha nascosto il latte? Allora non sono solo qui!
Si muove a tentoni fra i suoi fantasmi.
Sente trillare il telefono e non riesce a trovarlo per rispondere. Forse sarà la sveglia?
Cerca la sveglia in cucina, ma non la trova.
Sarà nel forno? Un inferno. Cos’è il forno? Dov’è il forno?
Prova ad aprire la tapparella della portafinestra, ma non ha la forza per tirarla su, la fettuccia sembra di piombo.
Torna indietro nel labirinto, ogni tanto sbatte da qualche parte, prima entra nel bagno, si gira e intravede, davanti nella stanza di sinistra della carta su un tavolo.
Cos’è tutto sto casino?
È la sua scrivania. Spossato si butta sulla poltrona girevole: coi piedi la fa ruotare e si guarda attorno.
Libri sparsi in un caos da terremoto.
Maestro, lo chiamavano così i colleghi del giornale che lo stimavano. Cercavano i suoi consigli, seguivano i suoi suggerimenti. In redazione lo accerchiavano rumorosi, per mostrargli i loro articoli e chiedere correzioni, e lui, Luca Piras detto il Maestro, aldilà della scrivania o seduto in circolo con loro, mentre stabilivano la scaletta del giornale, parlava con amore delle parole che lui tanto amava e studiava. Le rigirava come calzini alla ricerca di un errore, di una storpiatura, di un uso non corretto.
Adesso la ricerca è costante. Cosa c’è di sbagliato nella sua esistenza? Cosa non funziona nel suo cervello?
La mia vita l’ho dimenticata. Chi sono?
Non lo sapeva più.
I ricordi tornavano indietro, spazzavano via quelli recenti e lasciavano solo pochi frammenti.
Un frame di una pellicola da trentacinque millimetri, come quelle che usavamo per… per cosa?
Poi uno squarcio nella foschia.
Una bambina, seduta sulla poltrona del salotto buono. Sono ricordi vaghi che vanno e vengono. Camicetta bianca, gonna scozzese, calzettoni blu, scarpe mordorè. Quasi dei lampi che appaiono all’improvviso. Le gambe accavallate, una mano sorregge il viso, il gomito piantato nel bracciolo, lo sguardo fisso verso l’obbiettivo, l’espressione triste. Immagini che appaiono e scompaiono.
Il click prolungato, il flash della macchina fotografica. Quell’aria sconsolata della bambina gli piace, la preferisce a un sorriso falso, fa diventare la foto diversa dalle solite.
La Rolleiflex è perfetta per fare i primi piani in bianco e nero e lui è un mago. Nina, mia figlia!
Come si manifesta, l’immagine viene inghiottita dalla nebbia.
È di nuovo nel deserto gelido della sua misera vita.
Il ricordo è come se non lo avesse avuto, non lascia un vuoto: non è mai esistito.
A cosa stavo pensando? Cosa stavo facendo?
Ah, sì, il latte, chissà chi me lo ha nascosto.
Ricomincia a trascinarsi dallo studio al corridoio, dal corridoio alla cucina in un lento e inesorabile movimento verso il nulla.

Nessun commento:

Posta un commento

Ho scritto una poesia...Il Cipresso...di Eleonora Satta

  IL CIPRESSO  Sono come il cipresso del mio giardino, lungo, magro e fino. Con quella chioma folta e ribelle, con la punta arriva alle stel...