1990
«Hai di nuovo spostato i piatti, vero?»
Sbatté con forza gli sportelli bassi della credenza di cucina.
«Non li trovo, babbo!»
Alzò gli occhi al cielo, digrignò i denti e sbuffò come un cavallo.
«Dove cavolo li avrai messi…» Afferrò dal tavolo il canovaccio per sventolarsi.
Il vetro della finestra era appannato. Fuori il vento ghiaccio di novembre alzava la nebbia.
«Mamma mia, che caldo.» Si sfilò il maglione e lo buttò su una sedia.
Si tolse gli occhiali, le lenti erano opache e unte, cercò di pulirle meglio che poteva con un lembo della canottiera. Si aggiustò capelli e vestiti.
Solo quando finì di sistemarsi, arrivò la risposta dalla sala. Aveva lasciato suo padre in poltrona, già col tovagliolo al collo, pronto per il pranzo.
La voce la raggiunse, debole come un sussurro:
«Boh... Non lo so… Nina, scusa…» il tono soffocato, come un bimbo che ne ha combinata una delle sue «… fammi pensare…»
Lei lo sbirciò dalla porta aperta della cucina, stava con gli occhi fissi alla punta delle pantofole. Sembrava aggrappato a quel “Fammi pensare”, piegato in due sulla poltrona, come se la posizione lo aiutasse a dare una risposta sensata.
Dalla cucina arrivò un gran fracasso, coperchi e pentole impilati sul lavandino si erano rovesciati a terra. Si voltò di scatto verso il rumore, toccandosi il petto e imprecò a denti stretti un "Vaffa".
«No via... non ricordo dove li ho messi…» Prima il sospiro di suo padre, poi le sue parole, che uscivano a fatica, quasi soffocate.
Finalmente trovò i piatti aprendo il forno, che esalò odore di marcio e muffa. Toh, c’è pure il latte… Si ritrasse veloce, socchiuse gli occhi e trattenne un conato di vomito. Si mise a pulire in apnea con movimenti rapidi cercando sollievo nell’odore del detersivo.
I commenti rimasero dentro di lei, esternarli avrebbe causato una mortificazione in più al suo babbo. Così preferì tacere e si dedicò alla puzza di chiuso e di latte andato a male.
Spalancò le finestre. L’aria si purificò rapida e fredda e rimase solo il profumo di carta stampata, libri e caffè, odori che lui portava con sé ovunque andasse, come un abito indossato in tutti i luoghi in cui viveva.
Ma guarda dove è andato a vivere. E si grattò la fronte. Pensare che il centro di Firenze è così bello!
Quel condominio era immerso tra la nebbia e il cemento. Si respirava umido in ogni stagione. La natura sembrava schiacciata e sottomessa dall’invasione dei palazzi, tutti uguali tra di loro. Camminare per quelle strade dava un senso di soffocamento come se l’aria sentisse il peso del cemento, difficile da respirare.
Apparecchiarono insieme, lei andava avanti e indietro dalla cucina con l’espressione fissa e i gesti meccanici. Appoggiava sulla tovaglia piatti, posate, sale, olio e tutto il necessario, come un automa. Lui, seduto a capotavola sorrideva col pensiero chissà dove e con una sola mano distribuiva gli oggetti sul tavolo, come a voler sperimentare un disordine tutto suo.
In un secondo sentì lo sguardo paterno addosso come un vestito attillato, aveva gli occhi strizzati e divertiti dai suoi movimenti frenetici intorno a lui.
Iniziò la sigla del telegiornale, suo padre puntò gli occhi sullo schermo e canticchiò il motivetto, stonato come una campana. Lei sapeva che non andava disturbato, il TG era sacro.
Fece silenzio e sorrise ascoltandolo. In punta di piedi tornò verso la cucina. Si mosse a tempo con la musica e si fermò sull’attenti davanti al tagliere. Fece l’insalata a piccoli pezzi, mise i formaggi in un piatto. Poi si girò verso il fornello acceso, lo spense. Scolò la pasta. Il vapore della pentola con gli spaghetti le annebbiò per un momento gli occhiali da vista. Appoggiò tutto su un vassoio e lo portò in tavola.
Cercavano di mantenere un comportamento normale, ma tutto intorno il vuoto avanzava, divorando il loro piccolo presente.
Il fiasco del vino rosso al centro tavola era come un faro che orienta la navigazione tra le pietanze, tutte ad alto indice di grassi saturi:
«Hai fatto le verdure? Lo sai che non le mangio.»
«Babbo, è solo un po’ di insalata, ti fa bene all’intestino.»
«La mangio per far piacere alla cuoca, ma mi fa schifo.»
Il suo bicchiere passava da pieno a vuoto e poi pieno e così via, sino a fine pasto e oltre.
La controindicazione principale delle sue medicine era l’assunzione di alcol.
Ogni calice bevuto cambiava i tratti del suo viso, spianava le rughe, gli accendeva le gote. Faceva sbucare un sorriso nel suo sguardo e voglia di parlare e scherzare. L’alcol placava l’ansia di vivere e il tormento di non sapere più chi era.
Dopo pranzo, lei lo sollevava come un neonato, lo sorreggeva da sotto le ascelle e, a piccoli passi, lo accompagnava in camera, Lui, a quel punto, si accasciava sul letto pieno di cianfrusaglie.
Passava tutto il pomeriggio lì a dormire. In serata lavoricchiava per finta, giusto un po’, fingeva di essere ancora un giornalista, seduto comodo, occhiali in punta di naso, matita rossa e blu per segnare gli errori: in mano un libro, ma a rovescio. Era in pensione da un pezzo. La sua vita era diventata piccola e senza significato. Per lui il giornale, andarci, viverlo, costruirlo, discutere coi colleghi, era la sua base. Senza c’era stato il crollo.
A cena ancora telegiornale, mangiare, vino, pillole e a letto, in un coma procurato per non dover sentire la vita che scorreva via veloce.
Implacabile, questa agonia lo portava verso la fine. Ma lui si ostinava a non vederla.
Parlavano poco di cose serie, un po’ per timidezza, un po’ per colpa del vino che a lui non permetteva di affrontare argomenti troppo filosofici e gli impastava la bocca e il cervello.
L’importante era stare insieme, anche solo per poche ore, perché la vita procedeva e nessuno avrebbe potuto fermarla.
Suo padre sembrava avere qualcosa di diverso quel giorno. Si stiracchiò, tolse gli occhiali con una mossa teatrale, si strofinò gli occhi con i pugni, portò allo scoperto il pancione strizzato nella canottiera sdrucita e impataccata, si riempì di nuovo il bicchiere.
Alla sua destra lei lo osservava come una madre che guarda il suo bimbo. Avrebbe voluto dire:
«Babbo dai, basta col vino!» Ma rimase zitta.
Lui iniziò a borbottare della guerra:
«Siamo dovuti sfollare da Livorno a... Boh?» Si grattò una guancia. «Follonica ecco sì.» Passò a grattarsi in fronte. «Ero insegnante di inglese al liceo classico.» Pausa con respiro. «No, aspetta, forse italiano?»
La sua vera aspirazione, era diventare giornalista e occuparsi della terza pagina.
«Quella dello spett.… no, no, cultura.»
Si faceva più sicuro man mano che ne azzeccava una.
«In casa si viveva sempre un’aria tirata e le regole erano tante e noiose. Mio padre era rigido, autoritario. Era militare sia col reggimento che con la famiglia.» Respirò forte. «Te lo ricordi nonno... aspetta, come si chiamava? Boh.»
Lei in un immobile ascolto, annuì.
«Ora mi viene in mente...Adriano ecco, sì...» E disegnò qualcosa in aria con la forchetta in mano, come un direttore d’orchestra che dà l’attacco ai musicisti, fiero di ricordare.
«Beppe, babbo, si chiamava Beppe.» Gli prese la mano del direttore d’orchestra e l’abbassò fino al tavolo accarezzandola.
Ne aveva già parlato altre volte, ma lei aveva voglia che lo facesse ancora.
Il nonno Beppe, lo aveva conosciuto di persona, per poco tempo e lo rammentava un po’ distante, che non c’era mai, che quando c’era non giocava con lei, non la prendeva in braccio, non le dimostrava affetto. Era morto che era piccola.
Il ritegno di suo padre nel parlare del passato era dovuto a molti fattori, primo fra tutti si vergognava di come aveva affrontato la vita.
L’alcol lo liberò dal pudore malato, lenì l’imbarazzo. Con gli occhi fissi sul bicchiere che appoggiò vuoto sul tavolo.
Maestro, così lo chiamavano in redazione. Ne andava fiero. Furono anni d’oro. Lei sorrise e lui continuò.
«Beppe era sardo. Lasciò la sua terra molto giovane per avere un lavoro stabile. Era figlio del fabbro di paese. Sua moglie, la Maria, era casalinga. In famiglia si viveva con pochi soldi.»
Il vino toglieva ogni timidezza.
Muta, fissò suo padre col timore che qualsiasi interruzione avrebbe cancellato il filo del ricordo.
Il tono di lui divenne rauco, trascinava le parole:
«Maria e Antonio... sì, loro... ebbero anche Mario. Antonio morì e Maria si risposò. Dal secondo matrimonio nacque Lilli.»
Lilli? Mario?
Lei non disse, chi sono? Lo pensò e basta.
«Lilli, per loro... Nina, com’è che si chiamavano quei due lì?»
«Beppe e Mario» rispose, pronta a sciogliere i fili ingarbugliati della matassa dei ricordi.
«Ah, ecco sì, Beppe e Mario...per loro, Lilli era a tutti gli effetti una vera sorella.»
Guardò fisso il ricamo sbiadito della tovaglia di lino rosso, c’era un fiore e con l’indice stuzzicò uno dei petali in rilievo.
«Mario insegnava e tuo nonno decise di fare il militare. Lilli rimase a casa.»
Finalmente respirò.
Riempì ancora il bicchiere.
«Beppe finì a Grosseto alla Caserma Lamarmora»
L’espressione della sua faccia si appesantì, il timbro si abbassò:
«È lì che sono nato…Grosseto, una volta ti ci porto»
Lo disse con una nota di tristezza, forse un rimpianto, come se avesse voglia di tornare indietro nel tempo, dove poter cambiare un po’ tutto quello che era accaduto poi.
Lei era stata con suo padre a Grosseto, ma lui non lo rammentava più.
«E che fine hanno fatto tutti questi parenti?»
Avrebbe voluto prendere nota di quelle informazioni così importanti per non dimenticare, ma non era il caso. Accartocciò il tovagliolo, giocò con le briciole del pane, lo fissò con gli occhi bassi per non incontrare il suo sguardo.
«Boh, non ho più loro notizie da quando il nonno è morto. Non so neanche se sono ancora vivi.»
E si sfregò la testa, con le dita cicciotte.
«Dove abitavano?» lei cercava di carpire tutto il possibile.
«In… Sardegna.»
Biascicava, sospirava, diede un colpo di tosse. Li conosceva bene questi segnali: lui stava perdendo il filo del racconto,.
«Buddusò… Buserri. Non ricordo bene… non ce la faccio!»
Le ultime quattro parole furono un urlo represso, silenzioso.
Per non imbarazzarlo, cambiò discorso come una sterzata improvvisa.
«Vieni, ti aiuto ad alzarti, così vai a riposarti un po’.»
Le rimasero molte domande ferme in gola, come un boccone che va di traverso. Si chiese perché queste persone, che erano parte di lei, delle sue origini, fossero scomparse nel nulla, come in un incantesimo.
Si alzò da tavola, ma dovette appoggiarsi con le mani e fare forza per sollevarsi, un senso di pesantezza le opprimeva lo stomaco, il cuore batteva forte, sapeva che non era il cibo.
Si muoveva lenta, il capo inclinato verso il pavimento, dove scivolò il tovagliolo. Si abbassò per riprenderlo. Gli occhi caddero sui piedi del padre col calzino calato, le pantofole consumate.
Il tovagliolo fu provvidenziale per asciugare le lacrime.
Sparecchiò, poi lo aiutò a sollevarsi dalla poltrona, gli avvicinò il deambulatore e lui si trascinò verso la camera da letto.
Era pronta ad andarsene, ma lasciarlo da solo era impensabile, non adesso. Rimase un attimo ferma a riflettere. Il luogo dove si sentiva più a suo agio era lo studio. Si accampò sul lettino dei dizionari, suo padre li sdraiava sul materasso per averli a portata di mano. Si fece spazio e appoggiò la borsa per terra, dalla quale sbucavano i colori sgargianti del suo Diario, la copertina ricamata, di broccato, non poteva rimanere inosservata: una grande onda blu sfidava una piccola barca di pescatori. Lo sfilò, lo aprì dove la penna faceva da segnalibro e scrisse per sfogare l’ansia.
Sesto, 26 luglio 1990
Caro Diario,
oggi ho provato a cambiare la canottiera al babbo, ma non c’è stato verso. Inizia a pigolare come un bimbo piccolo, si muove, scalcia, fa un gran casino. Mi sono beccata due gomitate. Non l’ha fatto apposta, ma i lividi sono apparsi blu e grandi, dopo poco. Non so proprio come fare. La badante, la quinta che cambio in tre mesi, si rifiuta. Lui è ingestibile. Qualche santo ci aiuterà?
Qui sta diventando difficile tutto, non sono tranquilla quando me ne vado, non dormo più la notte. L’insonnia mi perseguita. Vorrei fare, ma mi sento impotente, una nullità di fronte a questo destino infame che m tormenta. Non posso fare niente di niente di niente.
L’ultima frase la scrisse con la penna schiacciata sul foglio che, oltre all’inchiostro sbavato, lasciò delle righe profonde. Avrebbe voluto perforare tutta la pagina.
Si appisolò così, col Diario aperto, la pagina stropicciata e piena di sgorbi arrabbiati.
Al suo risveglio frugò ovunque in casa, svuotò cassetti, guardò sotto il materasso, cercò il suo passato fra le carte sparse nello studio del padre. Non un accenno, un numero di telefono, un indirizzo, sui parenti sardi niente. I discorsi fatti a pranzo avevano risvegliato in lei una grande curiosità, un desiderio di appartenenza, un antidoto contro la solitudine. Ma non ce n’era traccia.
Nella confusione, anche il libro condiviso con suo padre, il “loro” libro segreto, come in una maledizione della fata Morgana, era stato ingoiato dalle Nebbie di Avalon.
Dov’è? Forse tra le pagine, o nei commenti a lato, potrei trovare qualcosa, un indizio, un segno, uno scarabocchio. Forse sono impazzita tutto insieme, mi devo fermare.
Svuotò i polmoni e si raggomitolò sulla poltrona dietro la scrivania, le mani sulle cosce, stanca, delusa e avvilita.
Occhi chiusi, visualizzò la Sardegna, il golfo di Cagliari quando si arriva, l’odore di mirto, il caldo avvolgente di quella terra.
Poi, una grande e filamentosa ragnatela le si stratificò addosso. Si sentiva isolata. Non oppose resistenza e trovò conforto nell’abbandonarsi “Al Nulla che avanza”.
Un bozzolo di dolore il suo.
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