giovedì 22 giugno 2023

Pagine Scritte di Eleonora Satta - 1 continua





Siamo pagine scritte, un accumulo di carte, messe lì. A un certo punto è arrivato il quaderno rosso - un grande quaderno abbandonato da anni, che aspettava solo di essere usato - ci ha riunite al caldo della sua copertina di lucido cartone. Prima ci hanno scritte a mano, poi con una tastiera su un foglio virtuale. Siamo scaturite dalla fantasia e dalle emozioni di una ragazzetta testona e livornese. Con lei abbiamo percorso una strada di montagna tutta salite ripide, ciottoli e curve . Abbiamo avuto momenti di grazia in splendide vallate fiorite. E orizzonti infiniti tuffati nel mare. Un'avventura. Quattro anni di metamorfosi. La penna all'inizio scivolava un po' a casaccio su carta patinata e odorosa. Cancellava con sgorbi nervosi un periodo, una frase o una parola. Il quadernone ci ha accolto, fino a ingrossare con l'aggiunta di fogli volanti. Proprio come un corpo umano che cresce si sviluppa e subisce dei cambiamenti continui. Tutto è partito da un  un dialogo con la Signora Carluccia alla quale la ragazzetta aveva raccontato qualche episodio, qualche spunto. Carluccia ha quella rara dote che è l'ascolto. Il romanzo nasce da quell'ascolto profondo, dalle sue idee e valutazioni. Soprattutto dal suo incoraggiamento Noi pagine, parole e punteggiatura saremo sempre grate a Carluccia, ci ha liberate dalla prigione di una penna Bic e ha dato il la a questa avventura.

Durante questi anni abbiamo osservato la ragazzetta testona, leggere frenetica, prendere appunti, disegnare, scarabocchiare. Poi quando trafelata ha battuto tutto sul pc, per noi è stato un profondo dolore, ma per fortuna non ci ha mai messe nel cassonetto, anzi ogni tanto ci ha sfogliate per riciclare capitoli già in archivio. 
Sono state cambiate tante parole, perché le parole sono importanti, alcune volte precise, altre elastiche. Hanno significati simili, sinonimi. Si deve trovare quella giusta che dipinga l'emozione da trasmettere. Una frase dipende non solo da quello che la compone, ma da come viene costruita. L'effetto cambia spostando l'ordine delle parole.
A chi legge sfuggono molte cose, trova tutto già cucito come un vestito di haute couture. Ed è proprio un lavoro sartoriale: prima si appunta con le spille il cartamodello,  si fa l'impuntura e poi si smacchina con la Singer. 
Può diventare un lavoro infinito. Una storia può cambiare in continuazione e trasformarsi in un'altra, come le matrioske: ce n'è sempre una dentro.
Cari lettori, leggete i romanzi con questa riflessione bene in mente. Il libro è una costruzione elaborata, nessun scrittore - anche dei più famosi - ha mai potuto saltare la fase di mettere insieme una struttura, di assemblare per filo e per segno i personaggi.
Il libro non è come il panino del fast food, da mangiare in un boccone. Da consumare in fretta. C'è del mestiere dietro. Ore passate su un periodo che non vuole tornare per il verso giusto. O sulla posizione di una virgola.
La ragazzetta testona ha quasi finito di scrivere e presto si metterà all'opera per pubblicare. E siccome è parecchio testarda e determinata ne scriverà un altro che già sta nascendo negli appunti, nei personaggi, nei dialoghi. Un abito nuovo che presto verrà indossato. (1 - continua)






giovedì 8 giugno 2023

NINA Capitolo 2 di Eleonora Satta


1992 


La schiena, curva e dolorante non lo fa stare in piedi con sicurezza. Il respiro è profondo, ma affaticato. Un grido di aiuto rimane serrato fra le labbra. Barcolla, strascica i piedi. Struscia le pantofole, fa le facce come se avesse addentato un limone, stringe la bocca e scuote la testa, il rumore lo fa rabbrividire. Perde una ciabatta, il piede è bianco, pelle secca, unghie lunghe. Indossa una tuta da ginnastica impataccata che odora di stantio e unto. Le mani appoggiate al muro del corridoio sostengono il peso del corpo. Ha un pensiero fisso: Cosa cavolo sto cercando?
In sottofondo la voce impostata di un uomo, parla del Magistrato Di Pietro, dell’Albergo Trivulzio, di Chiesa. Lampi dipingono la parete davanti a lui.
Chi è che parla? Che posto è questo? Chi mi ha portato qui?
Lo sguardo vaga, lo spazio gli ruota intorno.
Le tapparelle sono abbassate, luce non ne filtra.
Le lampade di casa sono tutte accese a parte un paio di lampadine fulminate.
Dove sono? C’è nessuno?
Giramento di testa, nausea e il rumore della valvola cardiaca che riempie lo spazio: tic tac tic tac rimbomba, segna un tempo finito. Questo gli ricorda qualcosa, ma non riesce a definire cosa.
Si trascina in un’altra stanza.
Un pulviscolo si alza ad ogni passo, lo si vede nel fascio di luce dell’abat-jour.
Inciampa. Per terra ci sono: calze, mutande, libri, giornali.
Ci cammina sopra fino al letto, dove si abbandona.
L’odore tutto intorno è quello di vecchiaia.
La coperta è sepolta da altri indumenti, scatole di medicine, ricette. Non si copre neanche. Spegne la luce. Schiaccia con le mani il petto, chiude gli occhi e si addormenta.
Un rumore lo sveglia, spalanca le palpebre. Tutto buio intorno.
Che è stato?
Biascica con la bocca, gli occhi sono cisposi. Ancora un capogiro. Arranca col braccio in cerca dell’interruttore, la mano si muove come sulla tastiera di un invisibile piano: sullo scendiletto un cumulo di libri sparso sul pavimento.
Si alza.
Lo stomaco gorgoglia, ha fame. Prima o poi la trovo. Di fronte alla porta della camera c’è lo studio. Va giù per il corridoio, bagno a destra. In faccia al bagno c’è la sala da pranzo, poi ancora sulla destra, in fondo, se dio vuole, dovrebbe esserci la cucina. La riconosce dal colore: è tutta verde, dal pavimento ai mobili. Non ci si può sbagliare.
Apre un paio di sportelli a caso prima di capire che il frigorifero è quello grande, in fondo, vicino alla portafinestra. Fa un po’ fatica ad aprirlo, lo sportello è pesante. Dentro poche cose maleodoranti: un limone, del vino stappato, un cartoccio che sembra contenere qualcosa di ammuffito, forse gorgonzola, dei barattoli aperti. Cosa stavo cercando? Voglio fare colazione? Mi serve il latte. Dov’è il latte?
Entra dentro con la mano, rovescia i barattoli, ceci ammuffiti sgocciolano ovunque. Inizia a muovere la porta del frigo, avanti e indietro, come un mantice. Urla. Impreca. Alza gli occhi al cielo.
Chi mi ha nascosto il latte? Allora non sono solo qui!
Si muove a tentoni fra i suoi fantasmi.
Sente trillare il telefono e non riesce a trovarlo per rispondere. Forse sarà la sveglia?
Cerca la sveglia in cucina, ma non la trova.
Sarà nel forno? Un inferno. Cos’è il forno? Dov’è il forno?
Prova ad aprire la tapparella della portafinestra, ma non ha la forza per tirarla su, la fettuccia sembra di piombo.
Torna indietro nel labirinto, ogni tanto sbatte da qualche parte, prima entra nel bagno, si gira e intravede, davanti nella stanza di sinistra della carta su un tavolo.
Cos’è tutto sto casino?
È la sua scrivania. Spossato si butta sulla poltrona girevole: coi piedi la fa ruotare e si guarda attorno.
Libri sparsi in un caos da terremoto.
Maestro, lo chiamavano così i colleghi del giornale che lo stimavano. Cercavano i suoi consigli, seguivano i suoi suggerimenti. In redazione lo accerchiavano rumorosi, per mostrargli i loro articoli e chiedere correzioni, e lui, Luca Piras detto il Maestro, aldilà della scrivania o seduto in circolo con loro, mentre stabilivano la scaletta del giornale, parlava con amore delle parole che lui tanto amava e studiava. Le rigirava come calzini alla ricerca di un errore, di una storpiatura, di un uso non corretto.
Adesso la ricerca è costante. Cosa c’è di sbagliato nella sua esistenza? Cosa non funziona nel suo cervello?
La mia vita l’ho dimenticata. Chi sono?
Non lo sapeva più.
I ricordi tornavano indietro, spazzavano via quelli recenti e lasciavano solo pochi frammenti.
Un frame di una pellicola da trentacinque millimetri, come quelle che usavamo per… per cosa?
Poi uno squarcio nella foschia.
Una bambina, seduta sulla poltrona del salotto buono. Sono ricordi vaghi che vanno e vengono. Camicetta bianca, gonna scozzese, calzettoni blu, scarpe mordorè. Quasi dei lampi che appaiono all’improvviso. Le gambe accavallate, una mano sorregge il viso, il gomito piantato nel bracciolo, lo sguardo fisso verso l’obbiettivo, l’espressione triste. Immagini che appaiono e scompaiono.
Il click prolungato, il flash della macchina fotografica. Quell’aria sconsolata della bambina gli piace, la preferisce a un sorriso falso, fa diventare la foto diversa dalle solite.
La Rolleiflex è perfetta per fare i primi piani in bianco e nero e lui è un mago. Nina, mia figlia!
Come si manifesta, l’immagine viene inghiottita dalla nebbia.
È di nuovo nel deserto gelido della sua misera vita.
Il ricordo è come se non lo avesse avuto, non lascia un vuoto: non è mai esistito.
A cosa stavo pensando? Cosa stavo facendo?
Ah, sì, il latte, chissà chi me lo ha nascosto.
Ricomincia a trascinarsi dallo studio al corridoio, dal corridoio alla cucina in un lento e inesorabile movimento verso il nulla.

martedì 6 giugno 2023

NINA di Eleonora Satta - Capitolo 1


 

1990



«Hai di nuovo spostato i piatti, vero?»
Sbatté con forza gli sportelli bassi della credenza di cucina.
«Non li trovo, babbo!»
Alzò gli occhi al cielo, digrignò i denti e sbuffò come un cavallo.
«Dove cavolo li avrai messi…» Afferrò dal tavolo il canovaccio per sventolarsi.
Il vetro della finestra era appannato. Fuori il vento ghiaccio di novembre alzava la nebbia.
«Mamma mia, che caldo.» Si sfilò il maglione e lo buttò su una sedia.
Si tolse gli occhiali, le lenti erano opache e unte, cercò di pulirle meglio che poteva con un lembo della canottiera. Si aggiustò capelli e vestiti.
Solo quando finì di sistemarsi, arrivò la risposta dalla sala. Aveva lasciato suo padre in poltrona, già col tovagliolo al collo, pronto per il pranzo.
La voce la raggiunse, debole come un sussurro:
«Boh... Non lo so… Nina, scusa…» il tono soffocato, come un bimbo che ne ha combinata una delle sue «… fammi pensare…»
Lei lo sbirciò dalla porta aperta della cucina, stava con gli occhi fissi alla punta delle pantofole. Sembrava aggrappato a quel “Fammi pensare”, piegato in due sulla poltrona, come se la posizione lo aiutasse a dare una risposta sensata.
Dalla cucina arrivò un gran fracasso, coperchi e pentole impilati sul lavandino si erano rovesciati a terra. Si voltò di scatto verso il rumore, toccandosi il petto e imprecò a denti stretti un "Vaffa".
«No via... non ricordo dove li ho messi…» Prima il sospiro di suo padre, poi le sue parole, che uscivano a fatica, quasi soffocate.
Finalmente trovò i piatti aprendo il forno, che esalò odore di marcio e muffa. Toh, c’è pure il latte… Si ritrasse veloce, socchiuse gli occhi e trattenne un conato di vomito. Si mise a pulire in apnea con movimenti rapidi cercando sollievo nell’odore del detersivo.
I commenti rimasero dentro di lei, esternarli avrebbe causato una mortificazione in più al suo babbo. Così preferì tacere e si dedicò alla puzza di chiuso e di latte andato a male.
Spalancò le finestre. L’aria si purificò rapida e fredda e rimase solo il profumo di carta stampata, libri e caffè, odori che lui portava con sé ovunque andasse, come un abito indossato in tutti i luoghi in cui viveva.
Ma guarda dove è andato a vivere. E si grattò la fronte. Pensare che il centro di Firenze è così bello!
Quel condominio era immerso tra la nebbia e il cemento. Si respirava umido in ogni stagione. La natura sembrava schiacciata e sottomessa dall’invasione dei palazzi, tutti uguali tra di loro. Camminare per quelle strade dava un senso di soffocamento come se l’aria sentisse il peso del cemento, difficile da respirare.
Apparecchiarono insieme, lei andava avanti e indietro dalla cucina con l’espressione fissa e i gesti meccanici. Appoggiava sulla tovaglia piatti, posate, sale, olio e tutto il necessario, come un automa. Lui, seduto a capotavola sorrideva col pensiero chissà dove e con una sola mano distribuiva gli oggetti sul tavolo, come a voler sperimentare un disordine tutto suo.
In un secondo sentì lo sguardo paterno addosso come un vestito attillato, aveva gli occhi strizzati e divertiti dai suoi movimenti frenetici intorno a lui.
Iniziò la sigla del telegiornale, suo padre puntò gli occhi sullo schermo e canticchiò il motivetto, stonato come una campana. Lei sapeva che non andava disturbato, il TG era sacro.
Fece silenzio e sorrise ascoltandolo. In punta di piedi tornò verso la cucina. Si mosse a tempo con la musica e si fermò sull’attenti davanti al tagliere. Fece l’insalata a piccoli pezzi, mise i formaggi in un piatto. Poi si girò verso il fornello acceso, lo spense. Scolò la pasta. Il vapore della pentola con gli spaghetti le annebbiò per un momento gli occhiali da vista. Appoggiò tutto su un vassoio e lo portò in tavola.
Cercavano di mantenere un comportamento normale, ma tutto intorno il vuoto avanzava, divorando il loro piccolo presente.
Il fiasco del vino rosso al centro tavola era come un faro che orienta la navigazione tra le pietanze, tutte ad alto indice di grassi saturi:
«Hai fatto le verdure? Lo sai che non le mangio.»
«Babbo, è solo un po’ di insalata, ti fa bene all’intestino.»
«La mangio per far piacere alla cuoca, ma mi fa schifo.»
Il suo bicchiere passava da pieno a vuoto e poi pieno e così via, sino a fine pasto e oltre.
La controindicazione principale delle sue medicine era l’assunzione di alcol.
Ogni calice bevuto cambiava i tratti del suo viso, spianava le rughe, gli accendeva le gote. Faceva sbucare un sorriso nel suo sguardo e voglia di parlare e scherzare. L’alcol placava l’ansia di vivere e il tormento di non sapere più chi era.
Dopo pranzo, lei lo sollevava come un neonato, lo sorreggeva da sotto le ascelle e, a piccoli passi, lo accompagnava in camera, Lui, a quel punto, si accasciava sul letto pieno di cianfrusaglie.
Passava tutto il pomeriggio lì a dormire. In serata lavoricchiava per finta, giusto un po’, fingeva di essere ancora un giornalista, seduto comodo, occhiali in punta di naso, matita rossa e blu per segnare gli errori: in mano un libro, ma a rovescio. Era in pensione da un pezzo. La sua vita era diventata piccola e senza significato. Per lui il giornale, andarci, viverlo, costruirlo, discutere coi colleghi, era la sua base. Senza c’era stato il crollo.
A cena ancora telegiornale, mangiare, vino, pillole e a letto, in un coma procurato per non dover sentire la vita che scorreva via veloce.
Implacabile, questa agonia lo portava verso la fine. Ma lui si ostinava a non vederla.
Parlavano poco di cose serie, un po’ per timidezza, un po’ per colpa del vino che a lui non permetteva di affrontare argomenti troppo filosofici e gli impastava la bocca e il cervello.
L’importante era stare insieme, anche solo per poche ore, perché la vita procedeva e nessuno avrebbe potuto fermarla.
Suo padre sembrava avere qualcosa di diverso quel giorno. Si stiracchiò, tolse gli occhiali con una mossa teatrale, si strofinò gli occhi con i pugni, portò allo scoperto il pancione strizzato nella canottiera sdrucita e impataccata, si riempì di nuovo il bicchiere.
Alla sua destra lei lo osservava come una madre che guarda il suo bimbo. Avrebbe voluto dire:
«Babbo dai, basta col vino!» Ma rimase zitta.
Lui iniziò a borbottare della guerra:
«Siamo dovuti sfollare da Livorno a... Boh?» Si grattò una guancia. «Follonica ecco sì.» Passò a grattarsi in fronte. «Ero insegnante di inglese al liceo classico.» Pausa con respiro. «No, aspetta, forse italiano?»
La sua vera aspirazione, era diventare giornalista e occuparsi della terza pagina.
«Quella dello spett.… no, no, cultura.»
Si faceva più sicuro man mano che ne azzeccava una.
«In casa si viveva sempre un’aria tirata e le regole erano tante e noiose. Mio padre era rigido, autoritario. Era militare sia col reggimento che con la famiglia.» Respirò forte. «Te lo ricordi nonno... aspetta, come si chiamava? Boh.»
Lei in un immobile ascolto, annuì.
«Ora mi viene in mente...Adriano ecco, sì...» E disegnò qualcosa in aria con la forchetta in mano, come un direttore d’orchestra che dà l’attacco ai musicisti, fiero di ricordare.
«Beppe, babbo, si chiamava Beppe.» Gli prese la mano del direttore d’orchestra e l’abbassò fino al tavolo accarezzandola.
Ne aveva già parlato altre volte, ma lei aveva voglia che lo facesse ancora.
Il nonno Beppe, lo aveva conosciuto di persona, per poco tempo e lo rammentava un po’ distante, che non c’era mai, che quando c’era non giocava con lei, non la prendeva in braccio, non le dimostrava affetto. Era morto che era piccola.
Il ritegno di suo padre nel parlare del passato era dovuto a molti fattori, primo fra tutti si vergognava di come aveva affrontato la vita.
L’alcol lo liberò dal pudore malato, lenì l’imbarazzo. Con gli occhi fissi sul bicchiere che appoggiò vuoto sul tavolo.
Maestro, così lo chiamavano in redazione. Ne andava fiero. Furono anni d’oro. Lei sorrise e lui continuò.
«Beppe era sardo. Lasciò la sua terra molto giovane per avere un lavoro stabile. Era figlio del fabbro di paese. Sua moglie, la Maria, era casalinga. In famiglia si viveva con pochi soldi.»
Il vino toglieva ogni timidezza.
Muta, fissò suo padre col timore che qualsiasi interruzione avrebbe cancellato il filo del ricordo.
Il tono di lui divenne rauco, trascinava le parole:
«Maria e Antonio... sì, loro... ebbero anche Mario. Antonio morì e Maria si risposò. Dal secondo matrimonio nacque Lilli.»
Lilli? Mario?
Lei non disse, chi sono? Lo pensò e basta.
«Lilli, per loro... Nina, com’è che si chiamavano quei due lì?»
«Beppe e Mario» rispose, pronta a sciogliere i fili ingarbugliati della matassa dei ricordi.
«Ah, ecco sì, Beppe e Mario...per loro, Lilli era a tutti gli effetti una vera sorella.»
Guardò fisso il ricamo sbiadito della tovaglia di lino rosso, c’era un fiore e con l’indice stuzzicò uno dei petali in rilievo.
«Mario insegnava e tuo nonno decise di fare il militare. Lilli rimase a casa.»
Finalmente respirò.
Riempì ancora il bicchiere.
«Beppe finì a Grosseto alla Caserma Lamarmora»
L’espressione della sua faccia si appesantì, il timbro si abbassò:
«È lì che sono nato…Grosseto, una volta ti ci porto»
Lo disse con una nota di tristezza, forse un rimpianto, come se avesse voglia di tornare indietro nel tempo, dove poter cambiare un po’ tutto quello che era accaduto poi.
Lei era stata con suo padre a Grosseto, ma lui non lo rammentava più.
«E che fine hanno fatto tutti questi parenti?»
Avrebbe voluto prendere nota di quelle informazioni così importanti per non dimenticare, ma non era il caso. Accartocciò il tovagliolo, giocò con le briciole del pane, lo fissò con gli occhi bassi per non incontrare il suo sguardo.
«Boh, non ho più loro notizie da quando il nonno è morto. Non so neanche se sono ancora vivi.»
E si sfregò la testa, con le dita cicciotte.
«Dove abitavano?» lei cercava di carpire tutto il possibile.
«In… Sardegna.»
Biascicava, sospirava, diede un colpo di tosse. Li conosceva bene questi segnali: lui stava perdendo il filo del racconto,.
«Buddusò… Buserri. Non ricordo bene… non ce la faccio!»
Le ultime quattro parole furono un urlo represso, silenzioso.
Per non imbarazzarlo, cambiò discorso come una sterzata improvvisa.
«Vieni, ti aiuto ad alzarti, così vai a riposarti un po’.»
Le rimasero molte domande ferme in gola, come un boccone che va di traverso. Si chiese perché queste persone, che erano parte di lei, delle sue origini, fossero scomparse nel nulla, come in un incantesimo.
Si alzò da tavola, ma dovette appoggiarsi con le mani e fare forza per sollevarsi, un senso di pesantezza le opprimeva lo stomaco, il cuore batteva forte, sapeva che non era il cibo.
Si muoveva lenta, il capo inclinato verso il pavimento, dove scivolò il tovagliolo. Si abbassò per riprenderlo. Gli occhi caddero sui piedi del padre col calzino calato, le pantofole consumate.
Il tovagliolo fu provvidenziale per asciugare le lacrime.
Sparecchiò, poi lo aiutò a sollevarsi dalla poltrona, gli avvicinò il deambulatore e lui si trascinò verso la camera da letto.
Era pronta ad andarsene, ma lasciarlo da solo era impensabile, non adesso. Rimase un attimo ferma a riflettere. Il luogo dove si sentiva più a suo agio era lo studio. Si accampò sul lettino dei dizionari, suo padre li sdraiava sul materasso per averli a portata di mano. Si fece spazio e appoggiò la borsa per terra, dalla quale sbucavano i colori sgargianti del suo Diario, la copertina ricamata, di broccato, non poteva rimanere inosservata: una grande onda blu sfidava una piccola barca di pescatori. Lo sfilò, lo aprì dove la penna faceva da segnalibro e scrisse per sfogare l’ansia.

Sesto, 26 luglio 1990

Caro Diario,

oggi ho provato a cambiare la canottiera al babbo, ma non c’è stato verso. Inizia a pigolare come un bimbo piccolo, si muove, scalcia, fa un gran casino. Mi sono beccata due gomitate. Non l’ha fatto apposta, ma i lividi sono apparsi blu e grandi, dopo poco. Non so proprio come fare. La badante, la quinta che cambio in tre mesi, si rifiuta. Lui è ingestibile. Qualche santo ci aiuterà?
Qui sta diventando difficile tutto, non sono tranquilla quando me ne vado, non dormo più la notte. L’insonnia mi perseguita. Vorrei fare, ma mi sento impotente, una nullità di fronte a questo destino infame che m tormenta. Non posso fare niente di niente di niente.

L’ultima frase la scrisse con la penna schiacciata sul foglio che, oltre all’inchiostro sbavato, lasciò delle righe profonde. Avrebbe voluto perforare tutta la pagina.
Si appisolò così, col Diario aperto, la pagina stropicciata e piena di sgorbi arrabbiati.
Al suo risveglio frugò ovunque in casa, svuotò cassetti, guardò sotto il materasso, cercò il suo passato fra le carte sparse nello studio del padre. Non un accenno, un numero di telefono, un indirizzo, sui parenti sardi niente. I discorsi fatti a pranzo avevano risvegliato in lei una grande curiosità, un desiderio di appartenenza, un antidoto contro la solitudine. Ma non ce n’era traccia.
Nella confusione, anche il libro condiviso con suo padre, il “loro” libro segreto, come in una maledizione della fata Morgana, era stato ingoiato dalle Nebbie di Avalon.
Dov’è? Forse tra le pagine, o nei commenti a lato, potrei trovare qualcosa, un indizio, un segno, uno scarabocchio. Forse sono impazzita tutto insieme, mi devo fermare.
Svuotò i polmoni e si raggomitolò sulla poltrona dietro la scrivania, le mani sulle cosce, stanca, delusa e avvilita.
Occhi chiusi, visualizzò la Sardegna, il golfo di Cagliari quando si arriva, l’odore di mirto, il caldo avvolgente di quella terra.
Poi, una grande e filamentosa ragnatela le si stratificò addosso. Si sentiva isolata. Non oppose resistenza e trovò conforto nell’abbandonarsi “Al Nulla che avanza”.
Un bozzolo di dolore il suo.

Ho scritto una poesia...Il Cipresso...di Eleonora Satta

  IL CIPRESSO  Sono come il cipresso del mio giardino, lungo, magro e fino. Con quella chioma folta e ribelle, con la punta arriva alle stel...